la crisi della città

 

La crisi globale come crisi della città

 

Forse non abbiamo ancora bene elaborato una teoria urbana della crisi che ormai da 5 anni ha piegato l’economia mondiale e causato l’attuale depressione degli investimenti, del lavoro e dei consumi.

Perlomeno in Italia molto poche sono state le analisi che hanno proiettato la fase di crisi in una cornice interpretativa che tenga conto del ruolo delle città in termini di agglomerazione demografica e economica e colga l’impatto della crisi sulla capacità delle città di mobilitare risorse, costruire progetti di cambiamento e sviluppo, arginare la crescente disoccupazione e povertà relativa.

Eppure le origini dell’attuale crisi (almeno la crisi del 2008, su cui poi si è innestata l’attuale crisi europea) sono profondamente collegate ad una certa idea di città. L’idea di città americana come emblema della crescita prima industriale e poi demografica, dell’allargamento senza limiti verso la periferia, dell’accessibilità quasi universale alla proprietà attraverso un facilitato accesso al credito, del perseguimento senza scrupoli di progetti di rinnovo e commercializzazione di intere aree e quartieri ai fini di investimenti e creazione di rendite.

Questa idea, rispetto alla quale non sono rimaste immuni anche molte dinamiche di crescita urbana in Europa negli ultimi trent’anni, ha però subito due forti contraccolpi a partire dalla fine degli anni ’90: in primo luogo, la nuova divisione internazionale del lavoro, causata dalla globalizzazione, è stata dirompente soprattutto per quelle città sorte con la specifica missione di offrire ospitalità a operai e colletti bianchi di industrie tradizionali come quella dell’auto o dell’acciaio e che hanno visto scomparire nel giro di pochi anni la propria industria; in secondo luogo, l’incapacità di conferire o inventare una nuova missione rigeneratrice e sostenibile a queste agglomerazioni, da cui la fuga di popolazione, mestieri.

Un racconto dettagliato e vissuto del crollo di questa idea di città e del vuoto che ciò lascia in termini economici e sociali è al centro del volume di Alessandro Coppola, “Apocalypse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana ”. Nella descrizione, frutto di ricerca sul campo, della parabola di alcune importanti città della rust belt americana, Coppola fa il punto di sestante per una nuova prospettiva di analisi sulla crisi epocale del capitalismo, invitando a guardare alla città come metro di misura.

La fotografia dell’involuzione che città come Youngstown, nell’Ohio, a suo tempo la “Steel city” americana, o come Baltimora, Maryland, faro dei progetti di rinnovo urbano in giro per il mondo ma con sacche di povertà interne da terzo mondo, è la fotografia di una fase del capitalismo che si è conclusa con la globalizzazione e la crisi dei mutui sub-prime. Lo scenario apocalittico che proiettano queste città è un monito su come crisi e sofferenze sono di fatto fenomeni con una propria geografia.

L’incomparabilità della città americana con la media dimensione delle nostre città non deve farci dimenticare questo aspetto geografico e territoriale. La recente fotografia dell’ISTAT che consegna il numero impressionante di oltre 8 milioni di persone colpite da povertà relativa in Italia ha evidenti connotazioni geografiche: “Il dato medio che l’Istat rileva, però, non ci dà il senso di questo disagio se non lo decliniamo per aree geografiche e per tipologia di persone. Lungo lo Stivale la situazione è, insomma, assai diversificata e - diciamolo subito - i poveri, in Italia, sono al Sud. Prendendo come esempio l’ultimo anno censito, il 2011, la sola povertà relativa (quella meno grave) riguardava 4 famiglie su 100 al Nord, 6 su 100 al Centro e quasi 24 su 100 al Sud. Il Centro specie nelle realtà di provincia è prospero, solidale e l’incidenza della povertà - sia assoluta che relativa - è quasi solo fisiologica. Quella che c’è - peraltro - riguarda le periferie delle grandi aree urbane, Roma in primis. Per il Nord vale lo stesso discorso e, all’incirca, con gli stessi valori: i poveri sono nelle sacche di emarginazione urbana, mentre le piccole realtà conoscono una rete di protezione sociale e parentale che solo occasionalmente lascia qualcuno nell’indigenza estrema.”

Ecco quindi che la cronaca della fine di un ciclo economico è anche la necessaria cronaca dei luoghi della crisi e di come politiche territorializzate possono correggere squilibri e sofferenze. Su questo non sembra esserci un dibattito politico adeguato.

Ma cosa c’è oltre l’”Apocalisse urbana”? Coppola offre l’idea di alcuni spiragli di resistenza possibile, come ad esempio la strenua difesa che in città come New York è stata fatta negli anni per preservare i “community garden” e quindi un’idea di sostenibilità di consumo a basso impatto ambientale rispetto agli interessi delle rendite immobiliari. Anche una accresciuta partecipazione alla decisione delle sorti della città è una strada possibilie. Ma forse questo serve solo a costruire un immaginario utopico e poco fa per affrontare il problema alla radice: lo squilibrio della distribuzione delle risorse e la possibilità di preservare l’accesso a beni comuni da parte dei soggetti più deboli della popolazione.

Sia chiaro che servono soluzioni di carattere coordinato e globale per correggere gli squilibri finanziari che hanno condotto all’attuale crisi. Forse però questo necessario livello di politiche transnazionali e globali deve essere affiancato anche da un rinnovato impulso verso una “frontiera urbana e territoriale” per formulare idee e proposte sostenibili di convivenza e di sviluppo (aspettando che anche le risorse per fare questo siano rese disponibili da bilanci europei e statali auspicabilmente più attenti alla dimensione territoriale e urbana).