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Aspettando il Titolo V: quale governance per il riordino istituzionale in Italia?

 city_limits.gifI confini amministrativi delle città non bastano per descrivere la pluralità delle relazioni sociali ed economiche che avvengono sul territorio per motivi di lavoro e di scambio. Questo tipo di relazioni segnano il territorio e ne sanciscono nuovi confini che sono “funzionali” piuttosto che amministrativi.

Se rappresentassimo tutto il nostro territorio solo sulla base della funzionalità delle relazioni che vi intercorrono, la mappa cambierebbe: molte città risulterebbero più ampie per via degli scambi con altre aree, molte province scomparirebbero inglobate in un’unica area di funzionamento economico e sociale. Cosa implica questo per un amministratore? Significa che il ripensamento che il riordino amministrativo in atto costringe a fare, a livello di confini e funzioni, va attentamente ponderato con la capacità di modulare le proposte di servizi (vecchi e nuovi), sulla base degli effettivi bacini territoriali in cui cittadini vivono, si spostano, lavorano, scambiano servizi. Un recente rapporto OCSE, permette di fissare alcuni punti importanti per aiutare amministratori e policy makers regionali nella fase attuale di scelte sul riordino:

1) Il vantaggio territoriale che deriva in molti paesi del mondo dalla presenza di grandi centri urbani che condensano servizi, capitale umano e competenze non è possibile in Italia e in Emilia Romagna, sia perché non abbiamo grandi aree metropolitane (ad eccezione di quelle designate come tali e che comunque sono piccole su scala mondiale), sia perché il nostro modello di sviluppo urbano è un modello di città diffusa, di medie dimensioni. Dobbiamo pertanto fare di una debolezza una virtù. E questo implica a maggior ragione ripensare a sistemi territoriali di forte alleanza (fino allo scenario della fusione) tra comuni.

2) Ripensare al territorio in chiave di alleanze che superino i confini amministrativi non significa trovare una unica dimensione ottimale che permetta di definire nuovi confini. Questo è impossibile per la complessità insita nelle molteplici funzioni da attuare (servizi alla persona, di manutenzione del capitale fisico di assistenza, di sviluppo culturale ed educativo, di sviluppo economico, ecc.). Il sogno impossibile degli “ambiti ottimali” deve lasciare posto a “modulazioni” di alleanze territoriali sulla base di programmi o obiettivi che abbiano la finalità di risolvere problemi di sviluppo, accrescere le potenzialità di sviluppo, migliorare la qualità della vita dei cittadini.

3) Il senso di una riforma efficace ed efficiente del modo con cui organizzare le funzioni territoriali dovrebbe essere quello di identificare aree funzionali che permettano di massimizzare investimenti compiuti e da compiere, competenze esistenti e acquisibili, qualità della vita dei cittadini. Non è semplice. Ma sicuramente è fuorviante compiere scelte di riordino solo sulla base di confini amministrativi esistenti. Per approfittare di una abusata provocazione politica, il verso del cambiamento è oggi spingersi oltre i confini, non ribadirli.

La Legge 56/14 porta a compimento, in tema di riordino amministrativo, un lungo iter che ha fornito, negli ultimi anni, il metro con cui si è misurato il livello di sensibilità pubblica nei confronti dei costi della politica. Per ciò che attiene agli “enti intermedi” (o ex province) viene confermata la trasformazione in organi di secondo grado, ne vengono snellite le funzioni e soprattutto ne viene riconosciuto il ruolo di “enti di area vasta”. Si tratta di un rilancio dell’iniziativa di riforma che rafforza il baricentro comunale nelle autonomie locali, con un effetto di “municipalizzazione”, sebbene in forte raccordo anche con le regioni, confermando l’importanza delle Città metropolitane.

L’impatto della riforma sembra tuttavia dipendere in modo cruciale dall’assegnazione definitiva delle funzioni (oltre a quelle espressamente assegnate), prevista a tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge.

Esiste oggi una ampia disparità di interpretazione a livello regionale in tema di riordino istituzionale dopo la L.56/14.

Il rilancio del tema degli “enti intermedi” in chiave di area vasta pone alcuni interrogativi che pertengono alla distribuzione delle funzioni tra i livelli di governo locale e alle competenze, nonché alla “potestà regolativa”, degli enti locali, soprattutto in tema di sviluppo territoriale e coordinamento degli investimenti finalizzati allo sviluppo delle risorse locali. Dalla prospettiva delle politiche di sviluppo locale, l’impatto dell’attuale riforma può essere migliorato su almeno tre fronti: avendo proceduto ad abbattere i cosiddetti costi della politica delle province, si può ora intervenire su ulteriori razionalizzazioni sul lato dei costi dell’amministrazione, gestione e controllo delle funzioni degli enti intermedi, anche attraverso un accorpamento di questi stessi enti, per garantire servizi efficienti sulla base di aree geografiche con dimensioni idonee (ciò che in gergo economico sono le economie di scala), soprattutto in aree non interessate dalle Città metropolitane. Si tratta di costi insopprimibili anche nel caso della definitiva scomparsa delle Province attraverso una riforma del Titolo V della Costituzione, perché provengono dal coordinamento di funzioni che rimarrebbero comunque a capo delle unioni comunali o delle regioni; oltre la conferma per gli enti di area vasta funzioni prevalentemente di “manutenzione” del territorio (come la gestione delle strade provinciali e dell’edilizia scolastica), occorre chiarire l’attribuzione di funzioni, come quella del turismo, attività produttive o programmazione economica, che pur incentrate prevalentemente sulla distribuzione di risorse, garantiscono, soprattutto in regioni virtuose con forte deleghe regionali alle province, un livello efficiente di coordinamento per la valorizzazione dei beni locali, lo sviluppo del territorio e l’utilizzo delle risorse europee; è necessario affrontare il tema dello sviluppo strategico dei territori non metropolitani. Prendendo ad esempio la sola Emilia Romagna la città metropolitana di Bologna interessa poco più di un 1/5 della popolazione regionale.

Resta aperta pertanto la questione di come gli enti di area vasta possano trasformare la confermata funzione di “pianificazione territoriale provinciale di coordinamento” in una efficace azione di raccordo tra pianificazione comunale e pianificazione regionale da una parte e tra città medie e “aree interne” (ovvero quelle più periferiche anche in termini di servizi e collegamenti), dall’altra, in un’ottica non solo di pianificazione urbanistica, bensì di coordinamento dello sviluppo economico e sociale (anche qui con il perseguimento di economie di scala). Le politiche dello sviluppo di ciò che potremmo definire “aree cardine” (tra città medie e aree interne) non sono meno complesse di quelle che interessano le aree metropolitane e dovranno essere attentamente bilanciate e coordinate all’interno delle regioni, anche attraverso una rivisitazione dei piani territoriali strategici regionali.

L’assetto di governance che affida all’ente intermedio il secondo livello (quindi indiretto) è funzionale ad una idea di ente intermedio che abbatte i costi e le inefficienze insite nella discrezionalità politica degli organi consiliari provinciali; l’ampliamento delle funzioni di questo nuovo ente intermedio di area vasta, in chiave di coordinamento di politiche di sviluppo (ad esempio: turismo, programmazione economica, fondi strutturali, ecc.), deve essere discusso alla luce di tre variabili:

a) l’effettiva efficienza acquisibile attraverso un coordinamento di area vasta sub regionale e interprovinciale e l’effettivo impatto sullo sviluppo del territorio;

b) la non sovrapposizione con un coordinamento efficiente di carattere regionale;

c) il modello regionale di delega multilivello (che ad esempio in Emilia Romagna ha conferito ampia discrezionalità distributiva e di investimento alle province in passato, ma che non rappresenta uno standard comune in molte altre regioni italiane);

Esiste tuttavia il pericolo che la creazione di unioni comunali, senza un set di incentivi che le portino verso le fusioni, possano aumentare le inefficienze nel governo locale, aumentando il numero dei centri di coordinamento delle funzioni territoriali, soprattutto laddove ad una unica provincia si sostituiscono due o più unioni comunali; potrebbe essere opportuno valutare le funzioni di area vasta all’interno di una complessiva idea di riordino delle autonomie e di federalismo amministrativo, dentro una riforma del Titolo V della Costituzione che possa spingersi anche a considerare accorpamenti tra regioni.  

 
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