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Una riforma che non c'é PDF Stampa E-mail

Regioni, provincie e comuni. In attesa di una grande riforma

Il livello di governo locale (regioni, provincie e comuni) è in molti paesi UE sottoposto a processi di riforma e si trova sempre più sotto la pressione di una decrescente capacità di spesa. Gli investimenti del settore pubblico locale sono infatti in vertiginosa diminuzione in Europa (al ritmo di riduzioni del 7% all’anno). Si tratta però di un livello che ha tradizionalmente svolto un ruolo di innegabile motore per gli investimenti. Secondo un recente rapporto Dexia-CEMR su dati Eurostat, la spesa che transita dal livello locale rappresentava nel 2011, in media, il 12% del PIL nei 27 paesi UE; quasi il 60%  del totale degli investimenti del settore pubblico in Europa. In Italia la spesa del settore pubblico locale è il 16% del PIL e gli investimenti locali sono addirittura più del 70% degli investimenti dell’intero settore pubblico.

 

Nel nostro paese, l’attenzione sulla revisione della spesa pubblica e sui tagli dei costi alla politica ha portato alla formulazione del pacchetto del cosiddetto “riordino amministrativo” (i cui ultimi sviluppi sono enunciati dal D.L. 95/2012 convertito con modificazioni dalla Legge 135/2012) che impone l’accorpamento delle provincie, il loro passaggio ad enti non elettivi e la spinta a creare unioni di comuni. Una riforma la cui attuazione è attualmente delegata alle Regioni, e che resta in attesa, per il tema delle provincie, della sentenza del 6 novembre della Corte Costituzionale.

 

Ma cosa è avvenuto negli ultimi decenni in Europa in merito al funzionamento del settore pubblico locale?

 

Esistono sei paesi UE, oltre all’Italia, in cui sono presenti tre livelli amministrativi decentrati (regioni, ente intermedio e comuni): Belgio, Francia, Germania, Polonia, Spagna e Regno Unito. Il numero degli enti interessati e delle funzioni incorporate da questi livelli varia da paese a paese.

L’evidenza empirica infatti conferma che possono esistere almeno due tipi di efficienza nell’erogazione di un servizio pubblico: una legata al minor costo procapite (una efficienza di scala); l’altra inerente alla soddisfazione delle preferenze dei cittadini.

 

Ciò che le esperienze europee insegnano è che il livello di partenza per una riforma dell’assetto amministrativo è quello dei comuni, cioè il livello più prossimo al cittadino nell’erogazione di servizi pubblici. Questo tipo di riassetto in Europa è spesso stato regolato dall’alto. I paesi dove è avvenuto il consolidamento più radicale sono il Regno Unito, la cui riforma risale agli anni ‘70 e i cui comuni hanno oggi una dimensione media di 158 mila abitanti; la Danimarca che ha ridotto i propri comuni del 64% in un solo anno portandoli ad una dimensione media di 55 mila abitanti; la Germania che negli ultimi quattro ne ha ridotto il numero ad un ritmo del 7% annuo. In Italia attualmente abbiamo 8.092 comuni, numero pressoché stabile dal 1961 e la dimensione media è di 7 mila abitanti.

 

Non possiamo illuderci che semplicemente incoraggiando i comuni ad associare le proprie funzioni (come avviene ora in Italia con l’obbligo della gestione associata entro il 2014 per i comuni sotto i 5.000 abitanti) si riesca a raggiungere quel tipo di efficienza di scala e di preferenze che attualmente (in una fase storica di decurtazione della spesa pubblica) è richiesto al livello locale. Tanto più che l’intercomunalità in Italia interessa ad oggi solo il 19% dei comuni contro il 95% in Francia e il 39% in Germania. Il consolidamento più efficace, quello della fusione tra comuni, non viene contemplato dagli ultimi provvedimenti e prevede tra l’altro tempi lunghi di consultazione democratica locale.

 

Esistono inoltre servizi e quindi ambiti di politica locale, come la gestione del territorio, i beni per l’istruzione, lo sviluppo economico, che per essere efficienti hanno bisogno di dimensioni sovracomunali. Era questo il ruolo che svolgevano le provincie. Ovviamente con ampia eterogeneità da regione a regione sui livelli di efficienza nella gestione della spesa. Ma è ovvio che quello spazio intermedio nell’architettura amministrativa del nostro paese, soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, era funzionale al funzionamento del governo locale.

In Italia un lavoro UPI-Certet Bocconi ha stimato che gli investimenti fatti dalle province sono il 9,2% della spesa in conto capitale compiuta da Regioni ed enti locali, ma con situazioni molto eterogenee tra Regioni (ad esempio in Emilia Romagna il ruolo delle provincie era investito di una capacità di investimento doppia rispetto alla media italiana).

 

La trasformazione delle provincie dopo il loro accorpamento in organi di secondo livello (quindi non eletti direttamente) può ovviamente continuare a garantire un livello di coordinamento sovracomunale; tuttavia se il disegno finale (posto che ci sia un disegno finale nell’attuale riforma) è quello di arrivare ad assegnare questo ruolo all’intercomunalità (quindi investire le unioni di comuni di molte delle funzioni delle ex provincie) occorre accelerare il trasferimento di competenze, funzioni, personale alle unioni di comuni. Un vaste programme direbbe qualcuno. Non impossibile ma su cui forse occorrerebbe iniziare da subito in chiave sistematica in tutte le Regioni.

 

Siamo pertanto in una fase di non totale chiarezza sull’assetto futuro del governo locale in Italia. Le esperienze di inefficienza e corruzione in alcune regioni e la ricerca del taglio dei costi della politica stanno condizionando l’opinione pubblica verso visioni opposte a quelle neo regionaliste degli ultimi 15 anni. E’ questo un bene o un male?

 

E’ indubbio che l’autonomia di cui hanno disposto le regioni italiane non è stata usata con efficienza.

 

Ma è anche vero che esistono in Europa esperienze che insegnano come decentramento ed efficienza possono coesistere  (come nel caso della Germania), se gli enti locali sono inseriti in un sistema che garantisce sorveglianza e controllo fiscale. E’ un concetto importante: più decentramento implica maggiore controllo, non viceversa. E il maggiore controllo è di natura sia politica che fiscale.

 

Quella di un riassetto delle competenze tra livelli di governo in un’ottica di efficienza sarebbe una grande riforma da compiere in Italia per il controllo della spesa pubblica. Tappare le falle con toppe provvisorie non è sufficiente.

 

  

 

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