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Via le provincie. Quale federalismo? PDF Stampa E-mail

Via le provincie. Ma quale federalismo?

Queste sono alcune note introduttive (e un pò tecniche) che fanno parte di un contributo più esteso in corso di preparazione.

Sgomberiamo subito il campo da equivoci: se sono corrette le stime effettuate a riguardo, la soppressione delle provincie con il relativo risparmio di circa 2 miliardi, nell’attuale fase di buio totale per le sorti della finanza pubblica è un’azione da intraprendere con la massima rapidità, accelerando l’iter del DDL costituzionale.
Nelle analisi effettuate, però, la compressione dei costi è possibile solo sul fronte della rappresentanza politica e delle spese generali. Significa che allo stato delle cose le provincie hanno una funzione che dà luogo a costi difficilmente comprimibili, se non in un riassetto complessivo dei livelli di governo del territorio che conducano ad una razionalizzazione complessiva del sistema istituzionale decentrato.

E’ vero, infatti, che in un paese in cui il 72% dei comuni è sotto la soglia dei 5.000 abitanti, una qualche forma di coordinamento di area vasta è più che legittimato anche in virtù di opportune azioni di coordinamento delle molteplici funzioni di carattere pianificatorio che non possono ricadere solo sul livello regionale. Come riconosciuto anche nel corso nei lavori della commissione parlamentare, in Europa esiste ovunque un organo intermedio tra regioni e comuni. Il punto quindi è come procedere ad una razionalizzazione del livello intermedio di governo del territorio, magari integrando questo processo con una vera riforma federale. Ciò che sorprende nel dibattito estivo sui costi della politica legati all’assetto istituzionale decentrato è la completa assenza di un ragionamento strategico riguardo al futuro assetto istituzionale dello Stato Italiano, dopo aver santificato, nell’arco degli ultimi due anni, con una raffica di decreti, un federalismo fiscale che è oggi più il simulacro di se stesso che la vera svolta istituzionale di cui ci sarebbe bisogno.

“Il federalismo fiscale è morto” ha dichiarato il Presidente della conferenza delle regioni, Vasco Errani. Una cosa è certa: concentrare sugli enti locali la gran parte dei tagli della spesa pubblica significa sopprimere qualsiasi possibilità di intraprendere una strada di responsabilizzazione dei livelli decentrati e significa anzi costringere i comuni ad aumentare il ricorso a tributi propri che sono già aumentati del 138% in 15 anni, andando ad accrescere la pressione fiscale sui cittadini.

Al di là del dibattito “provincie no, provincie si” (quest’ultima posizione a dire il vero assai in ribasso al momento), appare però assai articolato e a tratti contraddittorio il ventaglio di proposte avanzato nell’ultimo mese da più amministratori per una nuova razionalizzazione dell’assetto istituzionale.

Percorriamo insieme alcune di queste proposte:

1. Proposta di soppressione delle provincie sotto la soglia dei 300.000 abitanti. Proposta nata e morta nella confusione agostana del Governo che peraltro aveva avuto solo l’effetto di iniziare un piccolo "suq" per annettersi porzioni di territorio e superare la fatidica soglia (alla faccia della razionalizzazione!);

2. Proposte di fusione delle provincie (esempio della proposta Balzani per le provincie romagnole): ha il vantaggio di lasciare ipotizzare (ma solo ipotizzare in assenza di una seria analisi costi benefici) che si ricaverebbero benefici sul fronte di una razionalizzazione dei costi, ma tutto questo lasciando fondamentalmente invariato il mandato costituzionale del livello provinciale di governo;

3. Proposte di costituzione di città metropolitane come federazione di comuni (come la proposta Merola per Bologna) in sostituzione della provincia senza elezione diretta del presidente: offre il vantaggio di rompere lo stallo di situazioni in cui la svolta verso le città metropolitane è stata bloccata dal veto di comuni di medie dimensioni per timore di perdere qualsiasi peso politico sul territorio, ma resta debole in relazione all’effettiva capacità di governo del territorio (non avendo cariche elettive);

4. Proposta di trasformazione delle provincie in organi di secondo livello (proposta avanzata anche dal PdL), ovvero sostanzialmente uffici senza organismi istituzionali (presidenza, consigli e giunta) ma in capo ad assemblee di sindaci: avrebbe il vantaggio di agire direttamente sul costo della politica, salvaguardando il ruolo di coordinamento delle politiche sul territorio, ma avrebbero anche lo svantaggio di privarsi di qualsiasi mandato politico diretto;

5. Proposte di "regionalizzazione" delle provincie, ovvero un nuovo mandato per le regioni per configurare ambiti di secondo livello che sostituiscano le attuali provincie, ma fissandone soglie in termini di popolazione, con la sostituzione dei consigli con assemblee di comuni ma con l’elezione diretta del Presidente (proposta Vassallo) e il vantaggio (aggiungiamo noi) di eventuali funzioni che possano permettere di lavorare su economie di scala (la sanità e l’ambiente sono due esempi).

Questo ultimo modello avrebbe il vantaggio di rafforzare il mandato che viene alle regioni già dalla riforma del 2001 e che si è rafforzato anche in virtù dei programmi unitari di sviluppo dentro il QSN (ovvero il mandato alle regioni di coordinare le risorse fas ed europee). Avrebbe anche il vantaggio di saldare il legame tra comuni ed ente di area vasta e di avere una carica elettiva che potrebbe rappresentare una giusta funzione di leadership. Il mandato alle regioni potrebbe garantire che la designazione di enti provinciali vada in un’ottica di aree funzionali che massimizzano le sinergie di carattere socio-economico e gli investimenti di carattere infrastrutturale.

Tanto per fare un esempio: la Regione Emilia Romagna avrebbe il mandato costituzionale per potere designare un’area di coordinamento di secondo livello delle politiche e farlo aggregando anche più territori oggi suddivisi in più provincie, razionalizzando politiche di intervento come nel caso della sanità e dell’ambiente, raggiungendo economie di scala negli investimenti per queste politiche e anche andando incontro ad istanze che spingono per la proposta al punto 2 sopra. La regionalizzazione dell’assetto istituzionale è del resto nello spirito della riforma del federalismo fiscale sin qui concepita. Sembrerebbe quella della razionalizzazione del livello intermedio del governo del territorio una occasione importante per dare un senso ancora più compiuto alla svolta federalista.

Come si concilia questo tipo di razionalizzazione con una eventuale evoluzione del federalismo fiscale? Poiché gli interventi costituzionali che concernono le provincie riguarderebbero l’art 119 della costituzione si potrebbe cogliere l’opportunità per disegnare un vero sistema collaborativo tra stato e regioni in tema di sviluppo economico, un po’ come avviene ad esempio nel caso tedesco con l’art. 91 della loro carta costituzionale che definisce “gli ambiti di collaborazione” tra stato e lander. La scelta di designare livelli amministrativi di secondo livello consentirebbe di disporre di una effettiva leva di programmazione efficiente degli investimenti economici, a condizione che le soglie di costituzione di questi livelli siano alte (in termini di popolazione) e non si ricada in frammentazioni di carattere istituzionale.

Se tutto deve passare da una riforma costituzionale, quale spazio può essere dato a processi di discussione e di laboratorio di aggregazione e fusione tra gli enti che stanno emergendo a livello locale?
A nostro avviso ampio spazio, nella misura che siano dei veri e propri laboratori di discussione politica ed istituzionale, con solidi elementi tecnici ed anche con la partecipazione attiva delle rappresentanze e dei cittadini. Questi processi dovrebbero concentrarsi nella formulazione di proposte di aree ottimali per rendere efficiente l’erogazione di taluni servizi (riconoscendo che possono esserci scale di efficienza diversa per la sanità, per l’efficienza energetica, per l’innovazione e per il welfare). La politica dovrebbe dimostrarsi meno preoccupata rispetto ad un percorso di vero confronto, perché sarebbe opportuno iniziare adesso a delineare gli scenari del futuro assetto regionale, e non quando (per ipotesi) a Legge già promulgata occorrerà contemporaneamente sopprimere le provincie, gestire la riassegnazione del personale, pensare ad assetti funzionali di area vasta che magari accorpino le provincie esistenti e creino le città metropolitane, eleggere i nuovi presidenti e assegnare le nuove funzioni. Non è meglio iniziare un dibattito costruttivo da subito?

 

  

 

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